Ci sono frasi che sembrano innocue, quasi da infilare in un’agenda o in un tweet motivazionale. Poi però restano lì, come un sassolino nella scarpa. Questa è una di quelle frasi. Ed è terribilmente vera. Non sappiamo un’infinità di cose, eppure il nostro rapporto con l’ignoto non è il problema più grande. Il vero nodo è ciò che diamo per scontato, ciò che abbracciamo come verità stabile solo perché ci evita il fastidio di guardare più a fondo. L’illusione di sapere è una creatura subdola. Non fa rumore, non bussa, non ti avverte. Si insinua silenziosa mentre interpreti un gesto, giudichi una notizia, decidi cosa sia giusto o sbagliato. Ed è qui che nasce il mistero: non nell’assenza della risposta, ma nella risposta sbagliata che abbiamo già sposato. Pensiamo a un esempio quotidiano, banale ma efficace: la tecnologia che usiamo tutti i giorni. Siamo convinti di “sapere” come funzioni il nostro smartphone. Lo sblocchiamo, lo carichiamo, lo aggiorniamo… eppure di ciò che realmente accade nei pochi millimetri di quello schermo sappiamo meno di quanto crediamo. Questo falso senso di conoscenza ci fa sentire padroni del mezzo, quando in realtà lo stiamo solo accarezzando in superficie. È un po’ come dire: “Sì sì, il mare lo conosco benissimo, ho messo i piedi in acqua la scorsa estate”. Lo stesso accade con la memoria storica collettiva. Ci raccontiamo la Storia come una sequenza di fatti chiari, lineari, inevitabili. La realtà? Un mosaico di interpretazioni, omissioni e semplificazioni, riempito da certezze che abbiamo costruito per comodità. Più che conoscere davvero il passato, spesso ne adottiamo una versione addomesticata, levigata come un sasso di fiume. Facile da maneggiare, ma lontana dalla sua forma originale. La situazione diventa ancora più interessante quando entra in gioco la psicologia. Le neuroscienze sono piene di studi che dimostrano quanto il nostro cervello sia un abilissimo fabbricatore di convinzioni. Non sempre corrette, per carità, ma sicuramente molto convincenti. Quando crediamo di “sapere” qualcosa, il cervello produce una sensazione di sicurezza che è più piacevole della verità stessa. È la famosa comfort zone cognitiva, una piccola spa mentale dove tutto sembra già deciso. Il problema è che, spesso, quella spa è costruita sulla sabbia. Ecco perché il mistero più grande è la conoscenza presunta. Quella che accompagna le conversazioni al bar, le opinioni sui social, persino certe analisi personali che facciamo nelle nostre notti insonni. Non è tanto ciò che ci sfugge, ma ciò che non mettiamo mai in discussione. Il paradosso è evidente: più crediamo di sapere, meno ci accorgiamo di ciò che davvero ci sfugge. Consideriamo un altro esempio, stavolta più concreto e meno filosofico. Molti sono convinti di conoscere perfettamente una persona dopo anni di amicizia o relazione. Conosciamo i suoi gusti, i suoi tic, le sue reazioni. Poi un giorno quella persona compie un gesto inatteso – non necessariamente grave, semplicemente inatteso – e ci ritroviamo spiazzati. Non perché l’altro sia cambiato all’improvviso, ma perché la nostra “conoscenza” era, in fondo, una mappa semplificata, costruita per comodità. Una cartina illustrata, non il territorio. Tutto questo non significa che siamo condannati a navigare nel buio, anzi. Significa che possiamo scegliere un approccio più onesto alla realtà: la curiosità.
La curiosità è l’antidoto naturale contro la presunzione di conoscenza. Non pretende risposte definitive, non teme il dubbio, non si accontenta di ciò che “si dice in giro”. Fa domande. Tante. E spesso domande scomode. In un’epoca dove le informazioni viaggiano alla velocità di una notifica, la vera rivoluzione culturale sta nello sviluppare un pensiero che non si ferma alla prima impressione. La conoscenza superficiale è comoda, certo, ma è anche il terreno ideale per errori, distorsioni e fragili convinzioni. La conoscenza autentica, invece, richiede lentezza, capacità di rivedere le proprie idee e un pizzico di sana autoironia. Perché sì, ogni tanto dobbiamo anche ridere delle nostre certezze traballanti. Aiuta più di quanto sembri. E così torniamo alla frase iniziale. Il mistero più grande non è l’ignoto, ma l’illusione del noto. È il margine sfumato tra ciò che crediamo di aver capito e ciò che aspetta ancora di essere esplorato. Il vero viaggio culturale – quello che ci rende adulti pensanti e non semplici consumatori di concetti preconfezionati – comincia quando smettiamo di trattare le nostre idee come oggetti sacri. In fondo, la conoscenza è un movimento continuo. Oggi siamo convinti di una cosa, domani la sfidiamo, dopodomani la capovolgiamo. È un processo vivo, non un archivio. E se c’è un mistero che vale davvero la pena inseguire, è proprio questo: il coraggio di rimettere in gioco ciò che crediamo di sapere. Perché, a ben guardare, le risposte sono sopravvalutate. Le domande, invece, non tradiscono mai.
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