Do ut des (forse)

“Do ut des”. Tre parole latine che suonano come una stretta di mano invisibile tra due esseri umani. Una formula antica, solenne, scolpita nei secoli dalla penna di Giulio Paolo, giurista del III secolo d.C., e custodita nel Digesto, quel monumentale compendio giuridico romano dove il diritto prendeva le sembianze della logica pura. La frase completa è quasi un’armonia sillabica: “Aut enim do tibi ut des, aut do ut facias, aut facio ut des, aut facio ut facias.” Ovvero: ti do affinché tu dia, ti do affinché tu faccia, faccio affinché tu dia, faccio affinché tu faccia. Tradotto oggi in un linguaggio un po’ meno accademico e molto più quotidiano: “Facciamo uno scambio, ma niente beneficenza, per carità.” Questa è la pietra angolare su cui si fonda uno dei concetti più radicati nella nostra cultura: la reciprocità. Dare per avere. Contrattualizzato, ponderato, spesso calcolato. E non serve scomodare la toga romana per accorgersi che ancora oggi, sotto mentite spoglie, il principio resiste e prospera. Nel mondo del lavoro, nelle relazioni affettive, nei favori tra conoscenti, tutto sembra muoversi su un tappeto invisibile di bilanciamento: ti aiuto, ma ricordati. Ma davvero siamo condannati a vivere solo dentro lo scambio? Possiamo dare qualcosa senza aspettarci nulla? E soprattutto: è giusto farlo? Domande semplici, risposte complesse. La verità è che non esiste un codice universale per misurare il valore dell’altruismo. Sant’Agostino provava a insegnarcelo con una delle sue frasi più belle: “Dona ciò che hai per ricevere ciò che ti manca.” Un invito ad aprirsi, a fidarsi, a non tenere sempre il conto delle entrate e delle uscite morali. Ma nel mondo attuale, questa idea rischia di sembrare un aforisma da incorniciare e dimenticare nel corridoio. Perché? Perché viviamo in tempi dove il sospetto ha preso il posto della meraviglia. Ogni gesto di generosità è spesso accolto con un sopracciglio alzato. Ogni favore disinteressato scatena una domanda: “Cosa ci guadagna?” L’uomo ha sempre condiviso per sopravvivere. Il fuoco, il cibo, le storie, i sogni. In principio, aiutare l’altro significava garantire la continuità del gruppo. Poi, col tempo, il gesto ha iniziato a mutare: da istinto a strumento. E oggi? Oggi in molti casi il gesto di condivisione è diventato un investimento, una semina fatta non per amore del raccolto, ma per il profitto. Nasce così quella che potremmo chiamare la “reciprocità indotta”: ti do qualcosa per farti sentire in debito. E allora il favore diventa una trappola elegante, l’aiuto una richiesta camuffata, il dono un’ipoteca sul futuro. Ma non è un caso isolato: è un’abitudine, quasi una norma. Eppure, ci sono ancora persone che aiutano per il solo gusto di farlo. Esistono, anche se sembrano quasi creature mitologiche. Sono quelle che, senza proclami né applausi, tendono una mano e si eclissano. Ma quanta diffidenza incontrano! Il gesto puro viene spesso considerato debolezza, ingenuità o, peggio, strategia segreta. Chi fa del bene gratuitamente viene giudicato come se stesse nascondendo un secondo fine, perché in un mondo che premia la furbizia, la bontà sembra un’anomalia. E così, il giudizio retro spalle dilaga. Si mormora, si ironizza, si getta il sospetto come polvere nell’occhio. Perché è più comodo screditare un atto generoso che sforzarsi di imitarlo. Ciò che ci manca, forse, non è la capacità di essere altruisti, ma il coraggio di esserlo senza aspettarci un ritorno. Viviamo in una società che ci insegna a monetizzare tutto: il tempo, l’amore, l’amicizia. Una società dove anche il dolore viene misurato in click e la generosità in follower. Ma l’altruismo non ha un valore di mercato, e chi cerca di trasformarlo in merce lo svuota della sua essenza. Non si tratta di diventare santi né di rinunciare al buon senso. Si tratta solo di ritrovare un equilibrio, un modo più umano — e meno calcolatore — di stare al mondo. Dare, non perché dobbiamo, non perché conviene, ma perché possiamo. In un tempo in cui il sociale è più spesso una funzione del telefono che un’azione reale, riscoprire la bellezza del gesto gratuito può diventare una forma di rivoluzione silenziosa. Un atto poetico. Un’utopia necessaria. Forse è vero: chi dà senza aspettarsi nulla rischia di restare a mani vuote. Ma quelle mani, aperte, sono pronte ad accogliere molto più di quanto possano stringere. E allora, do ut des… ma con un sorriso, non con una clausola. Con un’intenzione limpida, non con un contratto in tasca. E se il mondo continuerà a misurare tutto, almeno noi possiamo scegliere ogni tanto di donare senza contare. Perché la bellezza di un gesto libero è che resta, anche quando non torna.

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3 risposte a “Do ut des (forse)”

  1. Esistono molte più persone che danno molto l’Italia è un paese che conta molte persone attive nel volontariato.
    Gratis sono negli ospedali, gratis insegnano italiano agli stranieri, gratis girano tra i senza tetto, gratis collaborano con grandi organizzazioni umanitarie.
    Un popolo silenzioso ma che esiste, torna indietro qualcosa che non è scambio se hai fatto il volontario per mezza giornata, torni a casa portandoti un po’ di serenità in più.

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  2. Bello comunque il tuo articolo, che fa davvero pensare alle azioni che facciamo, ed a quelle che riceviamo. L’altruismo senza dubbio esiste ancora, non ne dubito, ma è certamente merce rara.

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  3. C’è chi fa dono di quanto ha (denaro, tempo, attenzione), ma in effetti io – proprio io – sono in grado di donare? E lo faccio?
    Credo che sia una domanda che ci dobbiamo porre tutti, io per primo, pur accorgendomi che al di là della sfera familiare in effetti faccio ben poco.

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