Viviamo in tempi feroci. Ogni giorno ci svegliamo in mezzo a fuochi incrociati di opinioni, urla digitali, schieramenti ideologici. È un mondo che ci chiede continuamente: da che parte stai? Ma la vera domanda dovrebbe essere: perché ci stai? Dai conflitti geopolitici alle guerre culturali, dai diritti civili all’emergenza climatica, ogni questione sembra chiedere un giuramento. Eppure, schierarsi non è un rituale da compiere con cieca obbedienza. È un atto di coscienza. Un gesto di libertà. Perché, come ammoniva Jean-Paul Sartre, “Anche non scegliere è una scelta” – e spesso è quella che mantiene intatto il marcio. Le grandi rivoluzioni sociali non sono nate dal silenzio. Sono nate da voci fuori dal coro, da individui capaci di rischiare tutto pur di opporsi all’inerzia della maggioranza. Ma attenzione: schierarsi senza pensare, aderire acriticamente a un’idea solo perché condivisa dal proprio gruppo, è come consegnare le chiavi del proprio cervello. È guidare a fari spenti nella notte del conformismo. Il groupthink, lo chiamano gli psicologi. L’illusione collettiva che ci fa tacere dubbi per non disturbare l’armonia apparente. Lo abbiamo visto nella crisi dei missili di Cuba, quando uomini di potere scelsero di zittire il dissenso per non incrinare l’unanimità. Lo viviamo oggi, ogni giorno, dentro le bolle dei social network, dove gli algoritmi ci coccolano con opinioni su misura e ci trasformano in eco umane. E poi c’è la trappola più subdola: quella dell’identità. Quando le nostre idee non sono più frutto di riflessione, ma mere insegne di appartenenza. Si diventa tifosi, non pensatori. Si approva tutto ciò che “la nostra parte” dice, si respinge tutto il resto, anche quando la realtà ci grida in faccia l’assurdo. Durante le proteste per George Floyd, alcuni arrivarono a distruggere librerie indipendenti, colpendo le stesse comunità che dichiaravano di voler difendere. Paradosso? No, tragico riflesso dell’assenza di pensiero critico. Semplificazione tossica, la chiamano. Quella che riduce il mondo a un “noi contro loro”. Come se criticare il proprio governo fosse un atto di tradimento e non di democrazia. Hannah Arendt lo disse con brutale chiarezza: “Nella politica non si tratta di avere ragione, ma di comprendere”. Ma comprendere richiede fatica, tempo, onestà. Qualità rare, oggi più che mai. E poi c’è l’inerzia morale. Quella silenziosa, che non fa rumore ma che uccide lentamente il pensiero. Lo conferma uno studio del MIT: il 75% delle persone, pur sapendo che una risposta è sbagliata, la conferma per non contraddire il gruppo. Siamo davvero disposti a barattare la verità per un po’ di approvazione? E allora come si fa a schierarsi davvero? Primo: partire dai fatti, non dalle emozioni. La guerra in Ucraina è stata raccontata anche con immagini false, riciclate da altri conflitti, in un bombardamento emotivo che ha disorientato la coscienza. Secondo: preferire il dialogo allo scontro. Karl Popper lo sapeva bene: il progresso nasce dal confronto con il dissenso, non dall’eco delle nostre certezze. Terzo: coltivare l’umiltà. Saper dire: “Mi sbagliavo”. James Watson, lo scienziato del DNA, lo ha fatto. E se può farlo un Premio Nobel, possiamo farlo anche noi. Pensiero critico e presa di posizione non sono nemici. Sono gemelli. Nessuno dei due sopravvive senza l’altro. Schierarsi sì, ma con consapevolezza, non per osmosi sociale. Il vero coraggio non è unirsi al coro più rumoroso, ma pensare con la propria testa anche quando tutto il mondo sembra cantare un’altra melodia. Greta Thunberg, gli scienziati che hanno denunciato il climate change sfidando i negazionisti, i dissidenti di ogni epoca ci insegnano che ribellarsi al conformismo non è un gesto estremo. È il primo passo verso la verità. E in un mondo che grida per farsi sentire, pensare da soli è il gesto più rivoluzionario che possiamo compiere.
Published by

Scrivi una risposta a valy71 Cancella risposta