Tra i sogni ed il confine del possibile

C’è una parola che brilla come un faro nel buio delle disillusioni: utopia
Una parola dolce e crudele al tempo stesso, un ideale che sa di speranza ma anche di condanna. Perché, se è vero che l’utopia ci spinge in avanti, è altrettanto vero che ci ricorda quanto siamo spesso distanti da ciò che desideriamo diventare. Ma oggi non voglio parlare dell’utopia come puro sogno: voglio affrontarla per ciò che è realmente. Un’eco di ciò che vorremmo essere, ma anche uno specchio delle nostre illusioni. L’utopia è necessaria. È il motore invisibile che muove le rivoluzioni pacifiche, le grandi trasformazioni culturali, i passi avanti nella coscienza collettiva. Chi ha immaginato un mondo senza schiavitù, chi ha sognato l’uguaglianza tra uomini e donne, chi ha lottato per la dignità dei lavoratori. Tutti hanno abitato, per un tempo, quella terra incantata chiamata utopia. Eppure, nessuno vi si è mai stabilito. Perché l’utopia, per definizione, non esiste in nessun luogo. Non è un progetto urbanistico, non ha coordinate GPS, non ha una bandiera. È un luogo della mente e del cuore. Un esercizio di tensione ideale, non una destinazione. Il problema nasce quando pretendiamo che ogni cosa debba essere utopica. Quando, nel nostro quotidiano, cominciamo a giudicare noi stessi e gli altri sulla base di ideali perfetti e irraggiungibili. Ci convinciamo che la società possa cambiare completamente senza conflitti, che le relazioni umane siano sempre armoniose, che la realizzazione personale sia costante, ovunque e comunque. E lì comincia la frustrazione. Perché non tutto è utopia, ma nemmeno tutto è possibile. Viviamo in un’epoca in cui l’ideale è diventato tiranno. Lo vediamo sui social, dove ogni vita appare perfetta, ogni successo a portata di mano, ogni fallimento sembra colpa nostra. Lo percepiamo nelle promesse della politica, nei corsi motivazionali, nei mantra del “se vuoi, puoi”. Ma nessuno ci dice che alcune cose non si possono realizzare e non perché non siamo abbastanza bravi o volenterosi, ma perché la realtà è fatta anche di limiti. Certo, i limiti si possono sfidare, superare, negoziare ma ignorarli, negarli o maledirli è pericoloso perché ci spinge a vivere in una continua insoddisfazione, a credere che ogni ostacolo sia un’ingiustizia, a pensare che ogni imperfezione sia un fallimento. L’equilibrio sta nel riconoscere che l’utopia è utile come stella polare, ma non come traguardo assoluto. È una spinta, non una destinazione. Ci aiuta a non accontentarci, ma anche a non distruggerci. Sull’equilibrio George Orwell – spesso considerato un critico disincantato dei sistemi totalitari – ci offre una riflessione importante. In uno dei suoi saggi meno noti, scrive che “ogni tentativo di costruire un’utopia senza tener conto della natura umana è destinato a trasformarsi in una distopia”. Un monito lucido e attuale: quando la spinta ideale ignora le complessità dell’uomo, il sogno si trasforma in incubo. L’utopia, allora, perde la sua funzione ispiratrice e diventa imposizione. Nella sfera sociale, questo significa accettare che una società giusta non sarà mai perfetta. Ci saranno sempre tensioni, ingiustizie residue, contraddizioni. Il compito è quello di migliorare, non di perfezionare. Di creare margini di dignità, non eden irrealizzabili. Nella sfera personale, questo significa comprendere che non tutto è possibile. 
Non tutte le aspirazioni troveranno forma. Alcune battaglie saranno perse, alcuni sogni resteranno nella tasca del cuore. E non per questo la vita sarà un fallimento. Anzi, forse proprio lì, nella consapevolezza dei nostri confini, possiamo trovare la vera libertà ma non quella di fare tutto, ma quella di scegliere bene ciò che è possibile fare. Di vivere il possibile come spazio nobile, pieno, dignitoso e di riconoscere che anche le vite non leggendarie hanno valore e che non servono sempre grandi imprese per essere felici. Allora sì, possiamo sognare ma con i piedi per terra. Possiamo credere nell’utopia, senza pretendere di abitarla. Possiamo camminare verso ciò che desideriamo, senza ignorare ciò che siamo. Perché il vero miracolo non è raggiungere l’impossibile, ma rendere possibile qualcosa di vero, di buono, di nostro. 
E se l’utopia deve restare in cima alla montagna, che almeno ci ricordi perché stiamo salendo. 
Ma non ci faccia dimenticare che, anche lungo il sentiero, se guardiamo bene, fiorisce la bellezza. 

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6 risposte a “Tra i sogni ed il confine del possibile”

  1. aggiungo le parole di Fabrizio De André…
    “Io penso che un uomo senza utopia, senza sogno, senza ideali, vale a dire senza passioni e senza slanci sarebbe un mostruoso animale fatto semplicemente di istinto e di raziocinio, una specie di cinghiale laureato in matematica pura.”

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  2. Un bel posto Massimiliano, buona serata 🤗

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    1. Un posto che non c’è ma che ci potrebbe anche essere.

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  3. Questo testo è un balsamo per chi si è sentito in colpa per non essere abbastanza “ideale”, per chi ha creduto che sognare significasse riuscire sempre, e che l’utopia fosse una promessa più che una direzione. Mi colpisce la lucidità con cui viene restituito il valore della misura, della dignità del possibile, dell’imperfezione fertile.
    Forse abbiamo bisogno di parole come queste per disinnescare la dittatura del “tutto è realizzabile” che ci soffoca, e per tornare a vedere che anche le vite non epiche – come dici – custodiscono meraviglie.
    È raro leggere riflessioni che tengano insieme così bene il desiderio e il limite, la tensione al cambiamento e l’accettazione profonda.
    Mi porto via questa frase: “non serve sempre una grande impresa per essere felici.”
    E la sento vera, necessaria, come un faro che illumina la via… non quella in cima alla montagna, ma quella che calpestiamo ogni giorno. Grazie Massimiliano!

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    1. Ti ringrazio per il commento e per questa tua partecipazione dentro al mio spazio blog.

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  4. Ho imparato ad abbracciare l’imperfezione, il pallino del perfezionismo mi ha tormentata anche troppo a lungo, pur essendo consapevole di quanto fosse utopistico.

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