Quanto costa quella guerra?

Come se fossimo in un negozio e indicassimo una giacca appesa in vetrina: “Mi scusi, quanto costa quella?”. Ma stavolta, non si tratta di stoffa, né di moda. Si tratta di bombe, soldati, morti, strategie geopolitiche, cicli economici e banche private. Una frase che può sembrare stupida, detta così, ma che può diventare l’incipit più illuminante per una delle riflessioni più scomode della nostra epoca: quanto costa davvero una guerra, e a chi conviene? La risposta non è scritta sui cartellini appesi, ma nei bilanci delle grandi corporazioni e famiglie finanziarie che da oltre due secoli alimentano i conflitti nel mondo. In apparenza le guerre sembrano atti di politica, ideologia o religione. In realtà, sempre più spesso sono operazioni economiche, investimenti a lungo termine, con un margine di guadagno così alto da far impallidire qualsiasi prodotto finanziario tradizionale. Quando una nazione decide di entrare in guerra, la prima necessità non è morale, ma monetaria. I governi, per sostenere i costi di un conflitto, prendono in prestito denaro, emettono obbligazioni, cercano liquidità rapida. Ed è qui che entrano in scena le banche private. Quelle stesse istituzioni che nelle fasi di pace restano dietro le quinte, diventano i protagonisti silenziosi dei conflitti armati. Non interessa loro chi vincerà sul campo di battaglia. Non tifano per una bandiera o per un’altra. A queste entità interessa solo possedere ciò che resta dopo. La guerra per loro è un affare a rendimento garantito. Quando uno Stato è in difficoltà, il suo debito diventa un’occasione: obbligazioni vendute per pochi spiccioli, acquisite in blocco, e poi moltiplicate per cento, per mille, una volta che la guerra si conclude. In caso di vittoria, il valore sale alle stelle. In caso di sconfitta, il debito resta comunque, e i governi sono costretti a ripagare. Non importa se a vincere è Napoleone o Wellington, se cade Berlino o se sorge la democrazia in Medio Oriente: le banche che hanno finanziato entrambi i fronti riscuotono sempre. La guerra, dunque, non è solo un evento tragico e umano, ma è un asset finanziario gestito da coloro che meglio di tutti sanno far crescere i profitti dal caos. Ed è proprio dal caos che hanno tratto la loro forza. Durante la Prima guerra mondiale, queste corporazioni non si limitarono a finanziare gli eserciti: crearono vere e proprie alleanze strategiche basate su obbligazioni di guerra e prestiti tra governi. Ma il loro vero profitto arrivò alla fine del conflitto, nella ricostruzione dell’Europa, dove i cantieri della speranza vennero appaltati, indovinate un po’, proprio alle industrie finanziate dalle stesse banche che avevano alimentato la distruzione. Poi arrivò la Seconda guerra mondiale. Ed è qui che il quadro diventa ancora più chiaro. Industrie pesanti, chimiche, armamenti: tutto finanziato da capitali che giungevano sia da ovest che da est. Non vi fu lato del conflitto che non ricevette, in modo diretto o indiretto, sostegno economico dalle medesime mani. E come se non bastasse, al termine della guerra, fu grazie a queste influenze che vennero ridisegnate intere mappe geopolitiche, incluso il sostegno alla creazione dello Stato di Israele, frutto di manovre e pressioni internazionali condotte spesso dietro le quinte. Solo le banche hanno vinto, non le nazioni. I popoli si sono sacrificati, i governi hanno ricostruito, ma le famiglie finanziarie sono le sole ad aver mantenuto e aumentato il loro potere. Ogni guerra, ogni crisi, è stata un’occasione per consolidare il controllo. Non è un caso se la nascita e l’ascesa delle Banche Centrali coincidono con le grandi guerre moderne. Il controllo del denaro ha significato, in più di un’occasione, il controllo del risultato. Chi può stampare moneta, emettere credito, gestire l’inflazione o la recessione, ha in mano le leve della realtà. Non più i generali, ma i banchieri. Non più gli strateghi, ma i finanziatori. Chi controlla la moneta, controlla la storia. E la storia, benché cambi spesso i suoi nomi, ripete sempre lo stesso copione. Oggi non parliamo più apertamente dei Rothschild, dei Morgan o dei Rockefeller, ma le dinamiche sono identiche. Gli strumenti sono digitali, le guerre sono ibride, le crisi sono indotte, ma il gioco è sempre quello. Chi controlla il denaro, controlla il debito. E chi controlla il debito, detta le regole. Viviamo in una realtà dove la vera indipendenza non si misura in bandiere, ma in sovranità monetaria. Dove le nazioni che non costruiscono un proprio piano di emancipazione finanziaria restano intrappolate in un ciclo infinito: indebitarsi per armarsi, armarsi per combattere, combattere per indebitarsi ancora. E nel mezzo, la popolazione paga, con le tasse, con l’inflazione, con la disoccupazione, e talvolta con la vita. Chiedersi quanto costa una guerra non è più una provocazione retorica. È una necessità civile. È il primo passo per comprendere che ogni bomba lanciata ha dietro un bonifico, ogni soldato inviato ha un tasso d’interesse, ogni pace firmata ha un bilancio consolidato da sistemare. E forse, allora, dovremmo davvero entrare in quel negozio immaginario e chiederlo al commesso: “Mi scusi, quanto costa quella guerra in vetrina?” Perché solo quando capiremo il prezzo reale, potremo scegliere se continuare a comprarla.

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3 risposte a “Quanto costa quella guerra?”

  1. Penso che non lo capiremo mai. Continueremo a comprare, come abbiamo sempre fatto. E se non potremo permettercelo, ci indebiteremo pur di averlo.

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  2. Anche chi aiuta o intende farlo (per es. l’Italia) lo fa con la promessa di interessi nella ricostruzione (finmeccanica o simili, ENI), o per una precedenza nelle materie prime (gas).

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  3. Bell’articolo.
    Quanto costa una guerra a un popolo?
    Tanto, credo.
    Quanto fa guadagnare a chi è ricco?
    Molto.
    Leggevo che quando una guerra inizia, le borse mondiali hanno una prima flessione per poi invertire la rotta e iniziare a chiudere col segno positivo.
    La guerra muove l’economia, acquisto di armi e non solo , grandi aziende pronte a ricostruire città distrutte.
    Nessuno ricostruirà i morti.
    Ma questo non rientra nelle leggi dell’economia 🙄
    Grazie dello spunto interessante.
    Buona giornata 🌟

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