C’è qualcosa di disturbante nell’attualità di 1984. Come se quel romanzo, scritto in fretta e furia da un uomo malato e disilluso, avesse trovato nel nostro presente il terreno più fertile. George Orwell non aveva una sfera di cristallo, eppure ha previsto, con una lucidità disarmante, il nostro tempo. Non tanto nei dettagli tecnici – i teleschermi oggi li portiamo in tasca, e li chiamiamo smartphone – ma nello spirito. Nella sottile, vischiosa manipolazione che permea la vita sociale e politica. E che, spesso, non si vede. Perché il miglior controllo è quello che non appare come tale. Quando lessi 1984 la prima volta ero un ragazzo curioso, un po’ inquieto. Mi sembrava un libro estremo, iperbolico. Un incubo distopico utile a stimolare il pensiero critico, certo, ma lontano dalla realtà. Rileggendolo oggi, con anni di esperienza nel mondo digitale e nel sistema dell’informazione, mi rendo conto che Orwell ha fatto molto più di scrivere un romanzo: ha consegnato al mondo una mappa per orientarsi nella nebbia della propaganda. La forza di 1984 non sta solo nella trama – i tre superstati, la guerra infinita, la neolingua, il Ministero dell’Amore – ma nella rappresentazione del potere come manipolazione sistemica della realtà. “Chi controlla il passato controlla il futuro. Chi controlla il presente controlla il passato.” È questa frase a tremare ancora oggi nei palazzi del potere, nei social media, nei tg patinati. Ma cos’è oggi la manipolazione? È molto più sottile rispetto al totalitarismo che Orwell descriveva. Non serve più spezzare le ossa, basta confondere le menti. Non si bruciano libri, si annegano i lettori in un mare di contenuti inutili. Non si censura con la forza, si distraggono le coscienze. Un click dopo l’altro, un like dopo l’altro. Eppure, la vera manipolazione non avviene solo dall’alto. Oggi siamo anche noi i piccoli fratelli di noi stessi. Ci autocensuriamo, ci esponiamo, ci mettiamo in vetrina, rinunciando in cambio a quello che un tempo era un diritto: la privacy. La sorveglianza è diventata desiderabile. Il controllo si traveste da comodità. Le nostre emozioni vengono profilate, i nostri gusti analizzati, i nostri desideri anticipati da algoritmi invisibili e spietati. Questo è il Grande Fratello 2.0: non impone, seduce. Ho sempre pensato che Orwell fosse, in fondo, un moralista laico. Un uomo che credeva nella dignità dell’essere umano, ma che non si faceva illusioni. Non era un profeta, era un osservatore impietoso. E, forse per questo, ancora più credibile. Aveva visto i totalitarismi del Novecento, la devastazione delle guerre, la fragilità delle democrazie. E ci ha lasciato un monito: attenzione, tutto può essere piegato. Anche la verità. Nel mio piccolo, vivendo in un’epoca di fake news, di bolle digitali, di manipolazione emotiva permanente, sento il bisogno di ribadire un principio semplice: la realtà non può essere delegata agli algoritmi. La verità, se esiste, va cercata con fatica. Nessun sistema ci renderà più liberi se non coltiviamo la nostra capacità di dubitare. Di osservare. Di disobbedire, quando serve. Oggi 1984 è più che un libro. È una chiave per decifrare la modernità. Lo si trova in classifica da anni, nelle biblioteche scolastiche e nei carrelli digitali degli store online. Ma temo che spesso lo si legga senza comprenderne la carica eversiva. 1984 non è un testo da studiare, è un’arma da usare. Un libro da tenere accanto come una bussola morale, una cartina tornasole del potere e delle sue ombre. Se mi chiedessero quale sia il punto più inquietante del romanzo, non direi la tortura, né la guerra, né la sorveglianza. Direi la riscrittura della memoria. L’idea che si possa cancellare ciò che è stato. Che si possa convincere qualcuno che due più due fa cinque, se solo si esercita abbastanza pressione. Questo è il vero crimine: togliere agli individui la possibilità di pensare da sé.
E allora, ogni tanto, provo a chiedermi: quanto siamo già dentro quel mondo? Quanto tempo manca perché anche l’ultimo spazio di dissenso venga sterilizzato? Ma, soprattutto: siamo ancora in grado di riconoscere la verità quando la incontriamo? Orwell è morto nel 1950. Ma la sua voce, ironica, dura, tagliente, risuona più viva che mai. Sta a noi decidere se ascoltarla davvero, o archiviarla come l’ennesima “lettura consigliata”. Ma, ricordiamolo: il potere non è un mezzo, è un fine. Il potere è di infliggere dolore e umiliazione. Il potere è nel far a pezzi lo spirito umano e poi ricomporlo nella forma che si vuole. Leggere 1984 oggi non è un esercizio letterario. È un atto di resistenza.
Personalmente, 1984 ha smesso da tempo di essere “solo un romanzo”. È diventato un filtro attraverso cui guardo ciò che accade attorno a me. È il pensiero che mi scatta quando vedo certe campagne mediatiche costruite ad arte, quando sento parole svuotate del loro significato, quando la verità si riduce a un’opinione con più like delle altre. Mi ha insegnato a non accettare nulla per scontato, nemmeno me stesso. Scrivendo questo articolo, ho avvertito un senso di urgenza. Non perché tema che il Grande Fratello stia arrivando. Ma perché temo che ci stia piacendo troppo. E questa, forse, è la più grande vittoria dell’inganno: farci credere di essere liberi mentre stiamo stringendo da soli le catene. George Orwell mi ha insegnato a dubitare con dignità. A pensare con la mia testa. A vedere la manipolazione anche dove si traveste da buone intenzioni. E mi ha ricordato, sempre, che l’unico vero atto rivoluzionario resta questo: dire la verità. Anche quando fa male. Soprattutto quando fa male.
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