Cronache di una civiltà connessa

C’è stato un tempo in cui l’uomo parlava agli dèi. Poi ha iniziato a parlare alle macchine. Oggi, molto più semplicemente, sussurra ai server, sperando che rispondano, che lo capiscano, o almeno che non lo bannino.
Viviamo immersi in una rete che ci conosce meglio di noi stessi, che registra, prevede e suggerisce. Ma nel frattempo, qualcosa si è perso per strada: l’imprevisto, il silenzio, la noia fertile che faceva nascere le idee. L’umanità, iperconnessa e sovraesposta, sembra aver dimenticato come si sta senza notifiche. Abbiamo barattato l’incertezza con la comodità, la lentezza con l’efficienza, la realtà con la sua copia in alta definizione. Tutto è più veloce, più accessibile, più… prevedibile. Ma la prevedibilità, come il sale in eccesso, finisce per togliere sapore alla vita. Un tempo bastava guardarsi allo specchio per riconoscersi. Oggi serve una fotocamera da 12 megapixel e un’app di fotoritocco. Non viviamo più per essere, ma per mostrare di essere. Ogni scatto diventa un micro–manifesto: “io esisto, guardatemi, interpretatemi”. L’identità è diventata una vetrina luminosa, curata e ingannevole. Persino l’autenticità è diventata un filtro. E quando anche la spontaneità deve sembrare naturale, capisci che siamo entrati nell’era del marketing dell’anima. Abbiamo migliaia di amici, ma nessuno da chiamare. Viviamo nel paradosso della folla digitale: sempre in contatto, mai davvero presenti. Le nostre relazioni sono diventate biodegradabili: scorrono come i feed, si consumano come le batterie.
L’assenza fisica si maschera da connessione costante, e il silenzio, un tempo fertile, oggi genera ansia. Siamo animali sociali trasformati in animali notificati: pronti a rispondere, incapaci di ascoltare. Oggi non serve più decidere: ci pensa lui. L’algoritmo suggerisce cosa leggere, chi amare, cosa desiderare. È un maggiordomo invisibile e instancabile che anticipa ogni nostra mossa. Il problema è che, a forza di seguirlo, smettiamo di scegliere.
Siamo diventati consumatori di destino personalizzato, confondendo il comfort con la libertà. Ogni tanto, però, sbaglia. E quando lo fa – quando ci propone una canzone improbabile o un film sconosciuto – è un piccolo miracolo: l’imprevisto che ci ricorda che siamo ancora vivi. Nel mondo digitale, il caso non è più un dio, ma un bug. Ogni azione viene tracciata, ogni emozione catalogata, ogni abitudine prevista. Abbiamo sostituito la curiosità con l’analisi dei dati. Ma il caos non si lascia zittire. Il destino trova sempre una via: un errore di sistema, un incontro fortuito, una frase fuori posto.
E forse è proprio lì, in quella crepa nella logica, che sopravvive l’umano. Un tempo si discuteva. Ora si mette un cuore. Il like è la valuta ufficiale del consenso. Non impegna, non espone, non costa fatica. È la carezza digitale che sostituisce il dialogo. Ma se tutto è “bello”, “top”, “amazing”, allora nulla lo è davvero. Abbiamo smesso di confrontarci per paura di disturbare. E così la critica, l’anima viva del pensiero, è finita sotto la sabbia del consenso. Viviamo nell’ossessione del rendimento. Ma l’inutile, quello puro, gratuito, disinteressato, resta il rifugio più umano. Guardare il cielo, leggere un libro senza motivo, scrivere su carta: gesti piccoli ma sovversivi. Perché solo ciò che non serve a nulla sfugge al controllo. E solo ciò che sfugge può ancora farci sorridere. Forse siamo davvero come quel piccolo click digitale che, nel saggio, sognava di diventare umano. Abbiamo tutto, tranne la meraviglia. Abbiamo memoria infinita, ma pochi ricordi. Abbiamo mille connessioni, ma nessun contatto. Eppure basta un gesto semplice – una parola vera, un silenzio condiviso, un errore non corretto – per ricordarci che dietro ogni schermo pulsa ancora un cuore. E che, a volte, basta sussurrare. Non a un server. Ma a un altro essere umano.

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Una replica a “Cronache di una civiltà connessa”

  1. Non è colpa della tecnologia ma bensì dell’uso spropositato che ne fa l’uomo. Personalmente conosco persone che la loro professione è l’informatica ma l’informatica saggia, quella della quale ti servi quando ti necessita e dalla quale non ti fai sopraffare. Persone che nonostante la loro attività informatica, sono comunque persone vere, coi loro propositi e sentimenti e che la tecnologia la usano ma senza farsi usare da lei. E’ tutta una questione di scelta individuale e come in tutte le cose, anche con la tecnologia benché funzionale che sia, occorre mettere dei paletti, il troppo storpia da per tutto.

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