L’unico vero vantaggio di essere un over 50? Semplice: abbiamo fatto tutte le cose idiote prima che esistesse Internet. E per fortuna, non ci sono prove. Nessuna foto compromettente, nessun video tremolante su TikTok, nessun “ricordo di Facebook” che ti rimanda la tua faccia nel 1993 con un taglio di capelli che oggi sarebbe motivo di denuncia. Siamo, in poche parole, l’ultima generazione che può negare tutto. Negli anni ’80 e ’90, la stupidità era un’arte libera e non documentata. Si facevano sciocchezze in comitiva, si rideva fino alle lacrime, si ballava su tavoli instabili, si scrivevano lettere d’amore imbarazzanti che finivano strappate o bruciate, come si faceva con le prove dei delitti sentimentali. C’erano i “bigliettini” a scuola, non i messaggi vocali. C’erano i diari segreti, non i post pubblici. E soprattutto: le figuracce morivano la sera stessa. Oggi, invece, un momento di euforia registrato nel modo sbagliato diventa un meme eterno. Un video storto, un’espressione buffa, una parola fuori posto — e sei online per sempre, inchiodato al muro digitale della vergogna collettiva. Noi no. Noi avevamo il diritto all’oblio incorporato nel VHS che veniva cancellato sopra da un matrimonio. Essere giovani prima di Internet significava anche rischiare davvero. Non c’erano GPS, quindi ci si perdeva. Non c’erano recensioni su Google, quindi si entrava nei ristoranti alla cieca, con l’adrenalina di chi affronta l’ignoto. Non c’erano tutorial su YouTube, eppure montavamo mobili, riparavamo motorini e — incredibile ma vero — riuscivamo persino a sopravvivere senza sapere quante calorie avesse una brioche. Certo, abbiamo fatto cose discutibili.
Abbiamo usato jeans a vita altissima, tagli di capelli a scodella e profumi che oggi farebbero evacuare una stanza. Ma, ripetiamolo: non ci sono prove.
E questa, in un mondo dove tutto è archiviato, è una vittoria epica. La differenza vera tra “noi” e “loro” non è solo tecnologica, ma psicologica.
Noi potevamo sbagliare senza testimoni permanenti. La nostra adolescenza non era in diretta streaming, le nostre opinioni non finivano sotto un post con cento commenti indignati. Si sbagliava, si imparava, si cresceva — in silenzio. Oggi un errore online ti segue come un’ombra digitale. Un tweet infelice, una foto storta, una battuta di dieci anni fa e via: tribunale mediatico, condanna e gogna. Noi, invece, avevamo la fortuna di poter cambiare idea senza che qualcuno lo screenshot asse. Non siamo nostalgici — o almeno, non del tutto. Sappiamo che Internet ha portato comodità e connessioni impensabili, ma sappiamo anche che la leggerezza di un errore non documentato è un privilegio perduto. Noi over 50 abbiamo avuto la fortuna di vivere l’epoca in cui la privacy non era un diritto da firmare, ma una condizione naturale. Oggi ci guardano come dinosauri digitali, con le dita lente sulla tastiera e lo sguardo sospettoso verso l’intelligenza artificiale. Ma dietro quella lentezza, c’è saggezza. Abbiamo imparato che la vera memoria non è nei server, ma nei ricordi; che la verità non si trova nei commenti, ma nelle esperienze.
E, soprattutto, che un errore non condiviso è un errore dimezzato. In fondo, noi over 50 siamo i veri hacker del passato: abbiamo vissuto offline, abbiamo cancellato le prove e siamo sopravvissuti a tutto. Compresi i pantaloni a zampa e i paninari.
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