Si vede da come mi vede

A volte non serve lo specchio per capire chi siamo. Basta uno sguardo. Quello di chi ci incrocia distrattamente in metropolitana, o quello più intenso di chi ci conosce davvero. È buffo, ma finiamo sempre per misurarci con il riflesso che gli altri ci restituiscono, come se la nostra identità fosse una foto sfocata che solo gli occhi altrui riescono a mettere a fuoco. Ci si abitua presto a vivere sotto osservazione, anche quando nessuno ci guarda. In fondo, siamo animali sociali: abbiamo bisogno di sentirci visti per credere di esistere. Eppure, nel momento stesso in cui cerchiamo lo sguardo dell’altro, rischiamo di diventare prigionieri della sua percezione. Ci si riconosce nello sguardo altrui, ma spesso ci si smarrisce in esso. Fin da piccoli impariamo che valiamo tanto quanto ci dicono che valiamo. “Bravo”, “timido”, “troppo sensibile”: etichette che, col tempo, diventano specchi deformanti. E così cresciamo imparando a recitare un ruolo, a restare coerenti con l’immagine che ci hanno cucito addosso. Quando qualcuno ci vede diversi, quasi ci infastidiamo: come osa guardarmi in un modo nuovo? Meglio restare fedeli alla maschera che conosciamo. Pirandello l’aveva capito un secolo fa: non siamo mai una sola persona, ma tante quante sono gli occhi che ci osservano. Sartre, più spietato, sosteneva che “l’inferno sono gli altri”. Forse esagerava, ma non di molto. Lo sguardo dell’altro può essere paradiso o condanna. Ci basta un giudizio negativo per scivolare nell’inferno dell’autocritica, ma anche un complimento inaspettato per risalire al cielo dell’autostima. È un’altalena continua, e noi lì in mezzo, a cercare un equilibrio tra chi crediamo di essere e chi gli altri vedono in noi. Poi ci sono loro: i social. Lo sguardo collettivo per eccellenza, l’occhio digitale che non dorme mai. Qui il “si vede da come mi vede” diventa quasi un mantra moderno. Postiamo, sorridiamo, filtriamo, aggiustiamo la luce, cerchiamo l’angolazione che dica: “Ehi, guarda, sto bene!”. Ma lo siamo davvero? O abbiamo solo imparato a sembrare? La felicità 2.0 spesso passa per un pollice alzato e un cuore rosso, simboli di approvazione che valgono più di mille parole. È il nuovo specchio dell’ego: più ti vedono, più credi di esserci. Peccato che, quando si spengono gli schermi, lo sguardo torni a quello più difficile: il proprio. Ed è lì che nasce la vertigine. Quando nessuno ci vede, chi siamo davvero? Cosa resta di noi senza riflessi, senza pubblico, senza un “mi piace” a confermare la nostra esistenza? Forse è proprio in quel buio che riscopriamo la parte più autentica, quella che non ha bisogno di essere vista per sentirsi viva. Ma la verità è che anche quella parte, di tanto in tanto, ama essere riconosciuta. Non per vanità, ma per natura. Perché l’essere umano non è un’isola: è una rete di sguardi, un mosaico di percezioni. E allora forse la chiave non è smettere di cercare lo sguardo degli altri, ma imparare a sceglierlo. Circondarsi di chi ci vede non per quello che sembriamo, ma per quello che siamo anche quando non parliamo. Perché sì, si vede da come mi vede: se mi guarda con giudizio, mi rattrappisco; se mi guarda con rispetto, mi distendo; se mi guarda con amore, quasi mi riconosco. E nel migliore dei casi, imparo anche a vedermi con gli stessi occhi. In fondo, la nostra immagine è come un quadro in continua revisione. Gli altri ci danno pennellate, a volte troppo forti, a volte troppo leggere. Sta a noi decidere quali tenere e quali cancellare. Il resto è solo rumore di fondo, riflesso di un mondo che guarda ma non sempre vede. E allora, la prossima volta che qualcuno ti osserva con attenzione, chiediti pure: che cosa vede davvero? Ma non dimenticare di domandarti anche: io, come mi vedo? Perché la verità è semplice — si vede da come mi vede, certo. Ma ancora di più, da come scelgo di guardarmi io.

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