Non ci sono piu’ le indagini di una volta

Indagare su un omicidio non è soltanto una corsa contro il tempo alla ricerca del colpevole, ma anche uno specchio che riflette la civiltà che conduce quell’indagine. Attraverso i secoli, la ricerca della verità ha assunto forme e strumenti diversi, modellandosi sulle paure, le credenze e le conoscenze del tempo. In questo viaggio tra Medioevo e Rinascimento, esploreremo come la giustizia cercava di farsi strada tra oscurità e superstizione, anticipando le moderne pratiche forensi e lasciandoci in eredità interrogativi ancora attuali sul senso della verità e del potere. Nel corso dei secoli, le indagini sugli omicidi hanno subito profonde trasformazioni, riflettendo il livello di conoscenza scientifica, l’organizzazione sociale e le tecnologie disponibili in ogni epoca storica. Durante il Medioevo e il Rinascimento, l’approccio investigativo era radicalmente diverso da quello moderno. In un tempo in cui non esistevano né il microscopio né l’analisi del DNA, né tanto meno strumenti avanzati di rilevazione come le impronte digitali o i database centralizzati, le indagini si basavano quasi esclusivamente su testimonianze, deduzioni logiche e confessioni, spesso estorte. L’assenza di una forza di polizia strutturata come la conosciamo oggi rappresentava una delle principali difficoltà. Le indagini erano affidate ad autorità locali, come i balivi, i podestà o, in alcuni casi, agli inquisitori, a seconda della natura del crimine e delle leggi locali. In molte città medievali italiane, ad esempio, il podestà era incaricato di amministrare la giustizia, coadiuvato da notai, che registravano le testimonianze, e da armigeri, che fungevano da forza esecutiva. Nelle aree rurali, invece, la responsabilità ricadeva sui signori feudali o su figure ecclesiastiche, che svolgevano ruoli simili a quelli giudiziari. La raccolta delle prove era un processo rudimentale, ma non privo di logica. Quando veniva scoperto un omicidio, il luogo del delitto veniva esaminato dai rappresentanti locali. Tuttavia, l’idea di preservare la scena del crimine non era ancora diffusa; spesso, la contaminazione delle prove avveniva involontariamente, poiché la gente del luogo si radunava attorno al corpo per curiosità o per offrire aiuto. Gli investigatori osservavano il cadavere alla ricerca di segni evidenti di violenza: ferite da arma bianca, contusioni o tracce di strangolamento. Le armi rinvenute nei pressi venivano raccolte e, talvolta, analizzate comparandole alle ferite presenti. La medicina legale era in una fase embrionale, ma i medici potevano essere chiamati a esaminare il corpo per stimare il momento della morte o identificare eventuali tracce di veleno, basandosi su sintomi visibili come il colore della pelle o lo stato degli organi interni durante un’autopsia, che però era raramente autorizzata dalla Chiesa. Alcuni trattati di medicina dell’epoca, come quelli di Avicenna o Ippocrate, fornivano comunque conoscenze basilari utili agli investigatori. Un aspetto fondamentale delle indagini era l’interrogatorio dei testimoni. Gli investigatori cercavano di ricostruire gli ultimi spostamenti della vittima e di identificare eventuali sospettati attraverso i racconti di familiari, vicini e conoscenti. In molti casi, le accuse si fondavano su testimonianze indirette o su dichiarazioni rese sotto giuramento, registrate dai notai. Tuttavia, il rischio di accuse infondate era elevato, soprattutto in una società in cui rivalità personali e vendette erano all’ordine del giorno. La reputazione di un sospettato, talvolta, giocava un ruolo cruciale: bastava una voce diffusa per attirare l’attenzione su qualcuno, portando a giudizi sommari. La tortura era uno strumento controverso ma largamente utilizzato, sia per estorcere confessioni sia per ottenere informazioni dai sospettati. Le tecniche variavano da regione a regione, ma il principio sottostante era che la verità sarebbe emersa sotto il dolore fisico. Oggi sappiamo che tali metodi portavano spesso a false confessioni, ma nel contesto dell’epoca erano considerati efficaci e legittimi. In alcuni casi, tuttavia, si ricorreva a procedure più simboliche, come l’“ordalia”, un rituale giudiziario che metteva alla prova l’innocenza di un sospettato tramite prove fisiche, come camminare sui carboni ardenti o recuperare un oggetto da un calderone d’acqua bollente. Le ordalie si fondavano sull’idea che un intervento divino avrebbe protetto gli innocenti, una concezione profondamente radicata nella mentalità medievale. Un esempio significativo di indagini nel periodo medievale riguarda l’omicidio di Thomas Becket, arcivescovo di Canterbury, avvenuto nel 1170. Dopo l’assassinio nella cattedrale, il re Enrico II fu accusato di essere il mandante del crimine, ma le indagini si concentrarono soprattutto sulle testimonianze dei presenti e sul recupero delle armi utilizzate. In questo caso, il peso politico dell’omicidio influenzò profondamente il processo investigativo, che culminò con la canonizzazione di Becket e con un tentativo del re di redimersi. Questo evento dimostra come la politica e la religione fossero spesso intrecciate nelle indagini criminali dell’epoca. Nel Rinascimento, con l’ascesa delle città-stato italiane come Firenze e Venezia, le indagini divennero più strutturate. Firenze, in particolare, vantava la figura del “Capitano di Giustizia”, un ufficiale incaricato di investigare sui crimini gravi, incluso l’omicidio. I notai ricoprivano un ruolo cruciale, redigendo verbali dettagliati che sono giunti fino a noi, fornendoci uno spaccato delle tecniche investigative dell’epoca. Venezia, invece, contava sui famosi “Signori di Notte”, magistrati responsabili della sicurezza e delle indagini criminali, che potevano avvalersi di una rete di informatori. Questi ultimi, spesso retribuiti con denaro o favori, rappresentavano una delle risorse più preziose per ottenere informazioni segrete o confermare sospetti. Queste pratiche, oggi lontane dal nostro immaginario investigativo moderno, rappresentano le fondamenta di ciò che sarebbe poi diventata la scienza forense. La lunga evoluzione che ha trasformato l’intuito degli inquisitori medievali nelle metodologie rigorose della criminologia odierna ci racconta molto non solo dei crimini, ma anche di come le società hanno scelto di affrontare la verità, la colpa e la giustizia. Ogni epoca, nel suo modo di indagare, ci restituisce lo specchio di una mentalità collettiva, dei suoi limiti e delle sue aspirazioni. E forse, guardando indietro a quei processi rudimentali e talvolta brutali, possiamo meglio comprendere il valore del dubbio, della prova e della giustizia come conquista, non come concessione. Un percorso lungo secoli che, ancora oggi, continua ad affinarsi, nella speranza che ogni mistero trovi la sua verità.

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