La tragica vicenda di Beatrice Cenci si colloca nella Roma del tardo Cinquecento, un’epoca in cui il rigore della Controriforma imponeva una rigida morale pubblica, mentre la società rimaneva profondamente stratificata, governata da logiche di potere che lasciavano impuniti i crimini dei nobili e opprimevano i più deboli. In questo scenario di oscurità e ingiustizia si svolge la breve e tormentata vita di una giovane aristocratica, la cui vicenda avrebbe superato i confini della cronaca per diventare mito, simbolo e tragedia eterna. Beatrice Cenci nacque a Roma il 6 febbraio 1577, figlia del conte Francesco Cenci e di Ersilia Santacroce. Cresciuta in un contesto familiare già segnato dalla violenza e dalla dissolutezza, Beatrice visse un’infanzia isolata e cupa. Dopo la morte prematura della madre, lei e la sorella Antonina furono affidate al convento di Santa Croce in Montecitorio, dove ricevettero un’educazione religiosa e rigida, che tuttavia non bastò a proteggerle dalla violenza che si annidava tra le mura di casa. Il padre, Francesco, era un uomo temuto e odiato da tutti: ricco proprietario terriero, arrogante e crudele, aveva costruito la propria impunità attraverso il denaro e le relazioni, riuscendo a sfuggire più volte alla giustizia pontificia. Nonostante varie accuse di violenze, appropriazioni indebite e perfino atti di sodomia contro un figlio minorenne, Francesco riuscì sempre a evitare conseguenze gravi, pagando alte somme e corrompendo i giudici. Nel 1594, per l’ennesimo crimine, fu costretto a versare una multa colossale di 100.000 scudi: una cifra che, pur intaccando il patrimonio familiare, non intaccò minimamente la sua brutalità. Il suo potere era tale da permettergli ogni abuso, e l’impunità alimentava la sua crudeltà, soprattutto all’interno della famiglia. Beatrice divenne ben presto il bersaglio principale dell’ossessione paterna. Secondo numerose testimonianze, fu sottoposta a maltrattamenti continui, vessazioni e, con agghiacciante probabilità, abusi sessuali. Francesco, temendo che la figlia potesse un giorno sottrarsi alla sua autorità attraverso il matrimonio, la relegò insieme alla matrigna Lucrezia Petroni nel castello di La Petrella Salto, un luogo isolato e inaccessibile tra i monti abruzzesi, lontano da Roma e da ogni possibilità di aiuto o testimonianza. In quel castello avvenne l’ultima trasformazione di Beatrice: da vittima silenziosa a giovane donna decisa a porre fine al proprio calvario. Intorno al 1597, con la complicità di Lucrezia, dei fratelli Giacomo e Bernardo, e di due servi, Olimpio Calvetti e Marzio da Fioran, detto il Catalano, Beatrice pianificò l’assassinio del padre. La decisione non fu dettata dalla vendetta, ma dalla disperazione. Dopo due tentativi falliti, la notte del 9 settembre 1598 Francesco fu ucciso nel sonno, colpito ripetutamente con un martello e poi gettato da una finestra per simulare un incidente. In un primo momento, le autorità accettarono la versione dell’incidente, ma le voci che correvano a Roma spinsero la magistratura ad aprire un’inchiesta. Il corpo venne riesumato e le ferite evidenziarono chiaramente l’omicidio. Beatrice e i suoi complici furono arrestati e condotti a Roma per affrontare un processo sommario e crudele. Papa Clemente VIII, deciso a riaffermare l’autorità pontificia e dare un segnale chiaro di intransigenza morale, si oppose a ogni richiesta di clemenza.
Il processo fu condotto con durezza estrema. I Cenci furono interrogati sotto tortura, e anche Beatrice, dopo una strenua resistenza, fu costretta a confessare. Il tribunale pontificio, nella persona del giudice Ulisse Moscati, incaricò come pubblico accusatore Pompeo Molella e assegnò la difesa all’avvocato Prospero Farinacci, noto per la sua abilità dialettica e la sua reputazione controversa. Farinacci cercò di ottenere almeno la grazia per Beatrice, sottolineando la violenza paterna e la legittimità morale del gesto, ma ogni tentativo fu vano. Papa Clemente VIII rifiutò di intervenire, preoccupato che un atto di clemenza potesse alimentare il sentimento popolare già ostile verso l’aristocrazia corrotta. La sentenza fu esemplare. L’11 settembre 1599 Beatrice e Lucrezia furono decapitate in piazza di Castel Sant’Angelo, davanti a una folla enorme e attonita. Giacomo fu squartato in pubblico, e Bernardo, pur risparmiato dalla morte per via della giovane età, fu condannato ai remi a vita, costretto ad assistere all’esecuzione dei propri cari. Le teste di Beatrice e Lucrezia furono esposte su una picca, il corpo di Giacomo fu smembrato e lasciato marcire a monito della città. Tutta Roma fu scossa dall’orrore e dalla pietà. La figura di Beatrice divenne immediatamente oggetto di culto popolare: la giovane dai lunghi capelli e dal volto sereno, vestita di bianco, veniva pianta come una santa, una martire della violenza domestica e dell’ingiustizia. La sua storia attraversò i secoli, ispirando poeti, scrittori e pittori: da Percy Shelley a Stendhal, da Guido Reni a Alberto Moravia, la vicenda di Beatrice Cenci continuò a parlare all’anima di generazioni diverse, come simbolo eterno della ribellione alla tirannide e della tragedia femminile. La sua casa, a Roma, divenne un luogo leggendario. Si narra che ogni anno, nella notte tra il 10 e l’11 settembre, il fantasma di Beatrice percorra il ponte Sant’Angelo con la testa tra le mani, avvolta in un alone di luce. La sua figura, trasfigurata nel mito, rimane oggi una delle più forti testimonianze storiche del dramma umano travolto dalla crudeltà del potere, ma anche un grido che ancora riecheggia per le vittime di ogni abuso taciuto.
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